contributo di Giorgio Ortu
La formazione non può fare a meno di un’analisi della struttura ontologica e del significato del linguaggio.
Ebbene, ho parlato altrove della contraddizione che è solo del pensiero e non della realtà oggettiva. Ma non c’è da scherzare, perché la potenza della Ragione è capace di distruggere anche molto in profondità, certo pensieri, ma bisogna stare attenti a non prendere i pensieri come realtà oggettiva. Perché se è vero che i pensieri, espressione della Ragione, hanno sempre un riferimento alla realtà (psicologica, sociale, materiale, scientifica, matematica, ecc.), le contraddizioni o i paradossi che si creano nel linguaggio dipendono unicamente da un problema di linguaggio, esprimono un limite ontologico del nostro linguaggio astratto. E se il linguaggio si sovrappone alla realtà, che pure pretende di descrivere, allora non c’è corrispondenza tra nome e cosa (il concetto di “nomenclatura” di Aristotele e riferito al linguaggio ha trascurato erroneamente l’insegnamento di Parmenide e Gorgia). Infatti, come insegnarono Gorgia e Parmenide noi diciamo “nomi” e non “cose”, intendendo con questo che la comunicazione non avviene sulla realtà, ma sul linguaggio che la designa.
Ma io aggiungo: diciamo “nomi” in senso ancor più radicale, nel senso che la “cosa” risulta costruita dal “nome”. La “cosa” è quindi un artifizio, non esiste in sostanza. Questo limite del nostro approccio al Reale trova la sua origine negli schemi. Senza gli schemi l’umanità non avrebbe potuto inventare questo tipo di linguaggio. Il linguaggio grazie agli schemi quindi organizza, struttura, determina la realtà, la porta a compiutezza, la articola in un sistema. Sono gli schemi spazio-temporali, che si formano già nel feto umano, che consentono di creare, dal caos del magma immediato qual è la realtà in sé, un ordine oggettivo, un’immagine a forma di struttura stabile, e quindi per certi aspetti prevedibile, della realtà oggettiva. Il linguaggio ha seguito questo tipo di intervento sull’oggettività operato dagli schemi, e la fine di questo processo di formazione del linguaggio astratto coincide esattamente col Neolitico. Nel Neolitico finalmente gli uomini vivono in un mondo ordinato, scandito da ritmi regolari, perché il loro linguaggio è finalmente una struttura stabile e restituisce un mondo ordinato, così che hanno potuto inventare l’allevamento e l’agricoltura, l’artigianato. E nascono anche i primi miti, nei quali la tribù del villaggio è la razza umana per eccellenza, perché le sue origini sono divine, e dunque l’origine del cosmo è legata all’origine dell’uomo.
Gli schemi sono il “peccato originale”, il linguaggio è innocente quanto a strutturazione dell’oggettività. Ma strutturare vuol dire appunto inventarsi un ordine, che in sé non esiste -o almeno noi che siamo confinati nel linguaggio non lo conosciamo-, ma se è così allora tutti i nostri pensieri (a parte l’intuizione|) espressi nel linguaggio sono fallaci o almeno parziali.
La “realtà” che il linguaggio restituisce a chi parla -o a chi pensa per parole, non per immagini o intuizioni…-, non è reale. Ogni parola risulta così astratta, incapace di dire l’immediatezza del reale. E sia che io ti dica “questa è una rosa”, oppure “adesso sta piovendo”, o “guarda che bella luna che c’è in cielo”, sto semplicemente astraendo o isolando in astratto un’infima parte di realtà oggettiva dalla totalità che è il Reale in sé. Mi potresti dire, “ma come vivere e comunicare allora, se non attraverso questi universali linguistici?”. Ti potrei dire allora che la rosa ha un ramo spinoso che fa parte di una pianta, che il roseto è dentro il terreno per il tramite dei suoi rami e delle sue radici, che questo roseto è magari in un campo, arato o incolto, il quale potrebbe essere in un’isola, vicino ad altre isole e accanto a un continente, e ci sono altri continenti e altro mare che tutti insieme formano un pianeta, che questo pianeta fa parte di un sistema, che a sua volta, ecc. ecc. Tu mi dirai allora che tutte queste cose sono implicite nell’espressione “questa è una rosa”, e che non potremmo comunicare affatto se ogni volta dovessimo parlare di tutte le connessioni, della totalità, pur sempre, bada bene, già strutturata… E io allora ti rispondo così: non solo la presenza dell’implicito, o forse meglio del “nascosto” -perché si dimentica e il linguaggio diventa automatismo-, dell’inespresso, sono un grave danno alla nostra umanità perché perdiamo di vista la totalità, e ci è impedito in questo modo di percepire e gustare la bellezza del reale, ci è impedito di “sognare” (e Nietzsche ne “La nascita della tragedia” vedeva proprio nel sogno la forma di liberazione), non solo facciamo del linguaggio un “idolo” o un’ipostasi prendendolo per magica sostanza, diventando capaci di “uccidere” con le parole, scaricando in esse tutto il nostro livore, tutta la nostra marcia aggressività, tutti i nostri complessi maledetti, contrapponendoci agli altri e così creando inimicizia e odio e violenza; ma anche e forse soprattutto ci esponiamo ai distruttori del linguaggio che, a partire da Zenone d’Elea, giocando col linguaggio hanno voluto distruggere la stessa realtà. La realtà però esiste ed è ben salda.
Il problema autentico è come fare per conoscerla veramente. Ci sono quindi i paradossi del linguaggio (i paradossi antichi di Zenone, i paradossi moderni che hanno provocato la cosiddetta “crisi dei fondamenti” nella logica e nella matematica del primo Novecento), che sono proprio ontologici allo stesso linguaggio astratto, anzi, io dico, definiscono il linguaggio. Per la ragione che si tratta di un linguaggio che si è formato per accumulazione di astrazioni successive, senza un progetto o un programma consapevole da parte dei parlanti primitivi, che quindi si espone inevitabilmente agli attacchi corrosivi di una Ragione demolitrice, che trova buon giuoco nel trovare contraddizioni al suo interno. E contraddizioni se ne possono probabilmente creare una quantità enorme. Addirittura forse ogni espressione può essere dimostrata vera e falsa allo stesso tempo, cioè ogni espressione può essere contraddetta. Il che fa spavento. E tuttavia è ovvio che non si tratta della banale e talvolta idiota “contraddizione” cui si assiste nei dibattiti politici, no, è una contraddizione secondo le regole della logica. E però ribadisco -ed è una salvezza!-, non è una contraddizione oggettiva -ché se esistesse saremmo impossibilitati a vivere, non solo per l’impossibilità di conoscere la realtà, ma soprattutto perché questa si annienterebbe a causa delle contraddizioni, come accade quando materia e antimateria collidono, che appunto si annullano in radiazione- ma solo una contraddizione logica, del pensiero, soggettiva, espressa appunto dal linguaggio e determinata dallo stesso linguaggio. (Hegel invece prese la contraddizione per oggettiva: penso che nella sua povertà intellettuale dovette aver intuito oscuramente qualcosa del linguaggio, ma era troppo limitato per scoprirne la reale natura. E questa oscura e inconscia intuizione la espresse nella sua barbara forma di linguaggio, contorta, oscura).
Dunque, tu mi dici “questa è una rosa,”? E io ti rispondo così: questa non è una rosa, prima di poterlo dire mi devi dire quanti petali ha e di che misura sono, e di che colore sono, e prima ancora quando è sbocciata, e quando appassirà… Ti impedirei di dire “questa è una rosa” perché ti tempesterei di domande di integrazione e ci potremmo stare degli anni a “discutere”, e alla fine tu ti dovresti arrendere e ammettere che non puoi dire “questa è una rosa”. Già. Avevi notato? Il linguaggio opera una colossale semplificazione del reale, anzi meglio, una colossale falsificazione (Apro una parentesi. Per questo Derrida è banale, perché non ha capito che la semplificazione sta alle radici del linguaggio, non ha il suo fondamento negli inganni del potere, ma si annida all’interno di quello, lo qualifica e definisce -certo il potere semplifica ulteriormente per ingannare il popolo, ma lo può fare perché questo linguaggio glielo consente|).
Quindi, mi dici, come si può contraddire l’espressione “questa è una rosa”? Così amico mio, questa non è una rosa, questa è una mano, una mano e una rosa se vuoi, una “manrosa”… Ma no, lascia perdere la mano, la vedi questa rosa che tengo in mano? Appunto, io vedo una rosa e una mano, potrei dirti che si tratta di una mano e non di una rosa…
Questi sembrano giochetti banali perché non sono usuali, perché in ogni persona c’è un habitus consolidato a dare per scontate, per implicite le cose, ci sono degli automatismi che abbiamo acquisito, così che parliamo e comunichiamo molto velocemente, senza consapevolezza di ciò che sta sotto al nostro linguaggio.
Ma andiamo oltre i “giochetti”. Tu mi dici: “definisco la bellezza il massimo cui possa aspirare un uomo.”. Io potrei essere anche d’accordo, ma ti voglio contraddire. Per cominciare ti direi di dare una definizione della bellezza in se stessa, e non in riferimento a qualcos’altro. Ma tu mi dici, la bellezza è piacere, è pace, è sogno, è beatitudine e grande emozione… -Giusto, rispondo io, ma forse mi dovresti dare una definizione fondata sull’intuizione, dire una o poche parole o immagini capaci di “esplodere” su questa idea, sulla bellezza appunto, farla esplodere in modo che produca in me delle emozioni, delle immagini e delle emozioni. Ma come tutti, ahimè, non sei abituato alle intuizioni, maneggi gli universali e la logica, ma si tratta di argomentazioni, catene di deduzioni, non di intuizione. Perché l’intuizione è folgorante, appunto, esplode sul reale.
Quindi siamo ancora andati a vuoto, nel senso che il linguaggio è in difficoltà.
Eppure tu dici ancora: un linguaggio capace di parlare di se stesso ha una potenza notevole. Ti contraddico subito dicendo che non è del linguaggio la potenza, ma della Ragione. E’ la Ragione che unifica il linguaggio, lo porta a unità, E’ essa che scioglie le contraddizioni prodotte dal linguaggio. Il linguaggio è strumento.
Ti faccio l’ultimo esempio. Cercherò di dimostrarti una proposizione come possibile e a un tempo come impossibile. Si dice che Zenone d’Elea ci riuscì -ma non ci è rimasta la sua argomentazione-, Giorgio Colli invece nega che una dimostrazione del genere possa essere avvenuta. Riguarda il sole che sorge o non sorge domani. Ebbene, abbiamo: 1) è possibile che domani il sole sorgerà; 2) è impossibile che domani il sole sorga. Io dico: -1) Non mi puoi contestare il fatto che sto parlando solo di possibilità, e non di necessità. Dunque, ritengo possibile che domani il sole sorgerà perché così, da quando la terra esiste, è sempre stato… -2) Ritengo invece impossibile che domani il sole sorga appunto perché la terra sta rallentando il moto di rotazione attorno al proprio asse e nel giro di una notte si fermerà del tutto, quindi il sole non sorgerà|… Ma un momento…, qui siamo nella sfera dei fenomeni oggettivi. Siamo cioè nel “regno” squallido dei “dibattiti” politici di italica fattura… Non va bene, bisogna entrare nel cuore della logica.
Entriamo allora in un terreno strettamente logico. Però tu ribatti pronto al mio tentativo maldestro di argomentazione oggettiva: la tua impossibilità non è tale, ma è semplicemente una possibilità, cioè per le ragioni che hai detto, è possibile che domani il sole non sorga. No, amico mio, dico io, tu non hai ragione, perché io ora sposto il discorso sul piano della logica. E allora potrai vedere che abbiamo anche un’ impossibilità che contraddice la possibilità, e io ti voglio dimostrare che sono entrambe vere, o meglio, che si convertono l’una nell’altra, contraddicendosi e annullandosi.
Affronterò ora da diversi punti di vista il rapporto Possibile-Impossibile, e si vedrà che tutti giungono alla conversione del Possibile in Impossibile e viceversa. Cominciamo con la proposizione “E’ impossibile che il sole sorga domani”. Quale sarà la sua contraddizione, quella secondo cui è possibile che il sole sorgerà domani, o quella che dice essere necessario che il sole sorga domani? Diciamo che l’affermazione E’ impossibile che il sole sorga domani viene contraddetta da questa, E’ possibile che il sole sorgerà domani. Ora, se è vero che principio della modalità è che un oggetto espresso dal linguaggio è contingente (cioè possibile) o necessario, è anche vero che il necessario (è necessario che sia o è necessario che non sia) può essere volto in impossibile (è impossibile che non sia, o è impossibile che sia). Quindi avremmo che l’oggetto sarebbe o contingente-possibile o necessario-impossibile (che non sia). Ma possibile e impossibile ( cioè, necessario che non sia) si contraddicono per il tramite della necessità negativa. Proviamo allora a vedere come l’impossibile si converta in possibile. Risulta quindi che l’oggetto possibile espresso dal linguaggio non è tale per cui è o non è, ma è piuttosto tale che è e non è. In dettaglio i passaggi della conversione sono questi: l’impossibile è una categoria “assoluta” (come il necessario). Ma l’assoluto, sul piano dell’ “oggettività”, non ha bisogno di niente accanto a sé, se è tale, sennò sarebbe relativo. Ma siamo certi che l’impossibile sia davvero un “assoluto”? Diciamo in prima approssimazione che l’impossibile -questo presunto assoluto- trapassa nel possibile -vale a dire nel relativo data la sua indeterminatezza-, perché quello come tale è costituito di determinatezza, ma questa determinatezza che lo isola è anche la sua rovina che lo conduce dritto all’indeterminato -cioè al possibile-, visto che come assoluto, che non avrebbe bisogno di altro da sé, perderebbe come tale la propria assolutezza e isolamento, e appunto sconfinerebbe nell’indeterminato e nel relativo, quindi nel possibile, a causa dell’inevitabile contatto con altre realtà. Quindi sembra che l’impossibile non sia un assoluto. Vuol dire questo che intendere la categoria dell’impossibile come “assoluto” significa vederla come ipostasi, come sostanza oggettiva (magari dotata di “anima vivente”)? E’ ovvio che non intendo nulla di tutto ciò. Intendo invece parlare di “assolutezza” e “isolamento” dal punto di vista della struttura del linguaggio, nel senso cioè della “collocazione” di questa categoria nello schema articolato del linguaggio. Ebbene, risulta allora che l’impossibile, per il tramite del necessario, non è affatto un assoluto “in sé e per sé” (soggetto sostanziale autonomo), ma è tale solo “in sé”, (cioè nella sua immediatezza) , e che quindi esiste il legame col necessario, inteso come detto sopra, che lo aggancia immediatamente al possibile, convertendolo in possibile. Questo accade perché la proposizione E’ necessario che non sia (o E’ impossibile che sia) equivale a questa, Non è possibile che sia. Ma Non è possibile che sia si può convertire in E’ possibile che non sia. A prima vista questo non sarebbe consentito, perché la prima proposizione nega proprio la possibilità, mentre la seconda consente la possibilità (sia pure negativa). Ma dato che la possibilità può essere sia negativa che positiva in realtà però la suddetta conversione è ammessa logicamente vista la successiva equivalenza logica tra E’ possibile che non sia e E’ possibile che sia. Non si scappa, queste ultime due sono “solo” due possibilità che non si contraddicono e che si oppongono solo “di nome”, ma non logicamente. Quale sarà allora la sintesi tra le due possibilità equivalenti tale per cui l’impossibile si converte in possibile? La sintesi sarà questa: E’ possibile che sia o che non sia! La disgiunzione qui non ha valore assoluto, perché siamo nel campo del possibile. Eppure, è il fatto che siano vere ciascuna in se stessa e vere nel loro insieme che le rende viceversa paradossalmente “assolute”; e sarà allora proprio questa assolutezza che le isola a richiamare la proposizione E’ impossibile che sia -o Non è possibile che sia-, di modo che questa si converta (o equivalga a) nel possibile come “assoluto” -nel senso detto-, appunto per la ragione che a un “assoluto” (possibile o non possibile) si può mettere in rapporto il necessario (che non sia) –o l’impossibile che sia, o il non è possibile che sia-, altro “assoluto” perché esprime una negazione totale o un’impossibilità, sul quale quello “cade” fino a identificarvisi convertendosi in esso, cioè nell’impossibile, il quale quindi a sua volta diventa possibile, come per analogia accade nella proprietà commutativa dell’addizione dove cambiando o invertendo gli addendi la somma non cambia.
Per contro si può mostrare come il possibile si converta in impossibile, cambiando un po’ i termini del discorso. Il possibile (o il contingente) esprime un oggetto che è e non è. Quindi io posso dire “è possibile che il sole sorga domani” e “è possibile che il sole non sorga domani”, senza nessuna contraddizione, perché le due proposizioni hanno lo stesso valore di verità prese ciascuna per stessa, pur essendo opposte. Ma se io considero le due proposizioni come un insieme, come una coppia, il discorso può essere mutato. Se infatti nessuno può negare che il possibile, come potenzialmente effettuale, ha in sé la potenzialità a diventare tale, contiene in sé una ”dynamis”, una spinta a diventare effettuale, e questo come significato della parola possibile, proprio “oggettivamente” intesa, allora il paradosso, che spiana la strada poi all’ingresso in campo dell’impossibilità, nasce dall’equivalenza logica tra due opposti, che pur non contraddicendosi, perché non recano il segno della necessità, hanno tuttavia il destino di annullarsi a vicenda per via del fatto che non possono essere entrambi veri, nel significato ovvio che non possono diventare effettuali tutti e due simultaneamente. Ed è questa impossibilità che fa perdere loro la “dynamis”, una volta che sono state accostati e presi in coppia. Quindi, ciascuno, preso per sé, è vero, ma il prenderli in coppia li rovina. Quindi la loro rovina fa entrare in scena proprio l’impossibile! Siamo ancora nel piano della logica, con un aggancio possibile alla realtà effettuale
Vediamo ora la stessa questione -cioè la ricerca di contraddizioni che si annidano nel discorso- sempre studiando il rapporto possibile-impossibile. Dunque, E’ possibile che il sole sorgerà domani, E’ impossibile che il sole sorga domani. La categoria del possibile è aperta, indeterminata, quindi è in contraddizione con la necessità (per esempio, E’ necessario che il sole sorga domani, contraddice E’ possibile che il sole non sorga domani). Per trattare quest’ultima proposizione restando nell’ambito della logica dobbiamo anzitutto isolarla dall’altra proposizione. Allora risulta che grazie alla sua apertura e indeterminatezza non è in contraddizione con niente, e risulta immediatamente vera, quindi dimostrata in se stessa. Ma vediamo la categoria dell’impossibile (E’ impossibile che il sole sorga domani): domani dunque il sole non sorgerà perché è necessario che non sorga, quindi è impossibile che sorga. E ciò perché la necessità è una categoria modale che sta per sé, stringe la realtà attorno a sé ed è opposta al possibile, ma come tale sovrasta il possibile, lo ingloba annullandolo. Quindi ciò che in se stesso risultava aperto e immediatamente vero, ora risulta annullato. Il possibile è in contraddizione col necessario, quindi per converso il necessario che non sia o l’impossibile che sia risulta essere dimostrato dall’azzeramento del possibile compiuto dall’impossibile, cioè il possibile risulta azzerato in rapporto all’impossibile, per una via puramente logica, con altri termini del discorso.
Vediamo ora ancora meglio e più in dettaglio il primo caso dell’impossibile che si converte nel possibile. La proposizione E’ possibile che il sole sorga domani, è aperta e indeterminata, si è detto, è dotata di libertà, e come tale va vista in se stessa, isolata beatamente e quindi vera e dimostrata in se stessa. La proposizione che la contraddice, invece, E’ necessario che il sole non sorga domani, o E’ impossibile che il sole sorga domani, necessita per essere dimostrata dei seguenti passaggi:
1) E’ necessario che il sole non sorga domani;
2) Ma se è necessario che non sorga, allora Non è possibile che sorga (ma in tal modo si può anche dire che E’ impossibile che sorga) .
3) Quindi allora abbiamo (per la conversione legittima già effettuata nel primo caso) E’ possibile che non sorga.
Qui, con l’inclusione di questa proposizione nella seconda (Non è possibile, ecc.) abbiamo guadagnato un passaggio logico che ci consente di passare all’equivalenza secondo cui, se E’ possibile che non sorga, sarà anche possibile che sorga. E queste due proposizioni non sono in contraddizione, appunto perché il possibile è indeterminato, ma in quanto indeterminato o incompiuto si può anche dire che aspetti il suo compimento. E’ essenziale notare qui che il passaggio dalla seconda proposizione (Non è possibile che sorga), alla terza (E’ possibile che non sorga), è logicamente ineccepibile, eppure apre una crepa nell’argomentazione, esprime un limite o una contraddizione del linguaggio, appunto perché la terza proposizione (E’ possibile che non sorga) può essere contenuta nella seconda proposizione (Non è possibile che sorga), ma non la esaurisce affatto, perché la negazione della terza proposizione risulta essere solo una possibilità, non una certezza o una necessità, mentre la ferrea necessità è presente nella seconda proposizione (non è possibile che sorga). Cioè il necessario (non è possibile che sorga) ingloba in sé il possibile (E’ possibile che non sorga) e lo include senza contraddizione. La contraddizione quindi non è nel necessario ma nel possibile! La possibilità contraddice la necessità dell’impossibile, il possibile si è rivelato più potente dell’impossibile, perché è “venuto a patti” con l’impossibile (o la necessità che non sorga ecc.), mentre prima abbiamo visto che al contrario era l’impossibile che distruggeva il possibile!…
Detto in termini più semplici, ancora il possibile, il libero e indeterminato che “sconfigge” l’impossibile o il necessario. Se io dico E’ impossibile che il sole sorga domani, vale come dire E’ necessario che il sole non sorga domani. Ma se è necessario che non sorga, allora non è possibile che sorga, ma Se non è possibile che sorga è anche Possibile che non sorga, nel senso che questa possibilità che non sorga è contenuta nella prima (nella non possibilità che sorga), anche se ovviamente non la esaurisce. Ora però, se è Possibile che non sorga è anche Possibile che sorga, ma ciò contraddice la prima proposizione secondo cui è Impossibile che sorga. La crepa nel linguaggio che così si apre è consentita -ribadisco- dal fatto che prima si è inclusa la Possibilità che non sorga nella Non possibilità che sorga, e ciò genera una contraddizione, tuttavia il passaggio o inclusione di E’ possibile che non sorga in Non è possibile che sorga è legittimo perché inevitabile. Il passaggio è inevitabile -anche se contradditorio- perché qui abbiamo una necessità (Non è possibile che il sole sorga) e una possibilità negativa (E’ possibile che non sorga), che conduce dritta quest’ultima e nel senso della sua parte di possibilità a tale inclusione, che quindi risulta paradossalmente legittima. E in un secondo momento si è associata la possibilità che sorga alla possibilità che non sorga, e prendendo insieme queste due possibilità si entra in contraddizione con l’impossibilità, perché le due possibilità sono esaustive e totalizzanti, mentre l’impossibilità lo è pure data la sua “rigidità”. Quindi la contraddizione è finale, nel senso appunto che l’impossibile soccombe, ma in verità soccombe anche il possibile!…
Quindi per concludere, la chiave che consente l’apertura della porta della conversione di Possibile a Impossibile e viceversa, è tutta nell’equivalenza (o nell’inclusione) posta tra Non è possibile che il sole sorga domani, e E’ possibile che il sole non sorga domani. Se io dicessi E’ necessario che il sole non sorga domani avrei detto la stessa cosa di Non è possibile che il sole sorga domani, ma ho solo detto E’ possibile che non sorga. Il possibile non è un assoluto, ma è un relativo, un indeterminato, che come tale è in contraddizione con la necessità se lo si mette in relazione a questa. Ed è proprio per questa ragione che la proposizione E’ possibile che il sole non sorga domani può essere inclusa in Non è possibile che il sole sorga domani, appunto perché quella non esaurisce questa, la possibilità non esaurisce la necessità, e quindi non distrugge la contraddizione tra possibile e necessario.
Tutto questo discorso, che a uno sguardo immediato potrebbe apparire come sofistico, o addirittura come devastante, perché sembra distruggere idee consolidate come il possibile e l’impossibile, vuole semplicemente significare che il linguaggio astratto non ha una struttura veramente logica e razionale, ma è piuttosto un assemblaggio irrazionale, un aggiustamento molto posticcio. E’ solo la potenza della Ragione che può tenere a bada le crepe e le contraddizioni, e costruire una qualche unità laddove esiste dispersione. Quindi, le trasformazioni compiute ci hanno condotto a delle contraddizioni. Questo accade in particolare quando si ha a che fare con l’infinito (cfr. le aporie di Zenone) oppure con parole che recano l’impronta di un qualche “assoluto” (impossibile e necessario, possibile e impossibile). Sicché risulta che la proposizione E’ impossibile che il sole sorga domani si autodistrugge, così come si autodistrugge l’altra, E’ possibile che il sole sorga domani, accoppiata al suo contrario E’ possibile che il sole non sorga domani. Quindi, se dimostrare vuol dire imprimere all’argomentazione il segno della necessità logica, allora il fatto che queste due proposizioni contradditorie si siano annullate o autodistrutte, poiché distruzione e annullamento sono sotto il segno della necessità, significa che in un certo senso sono state dimostrate, cioè ne è stata dimostrata la loro inconsistenza. Ma il mondo va avanti lo stesso! E noi continueremo a servirci, finché avremo questo linguaggio, delle categorie del possibile e dell’impossibile. Ma con l’avvertenza che non hanno fondamento logico e non corrispondono a delle realtà oggettive sostanziali, ma sono solo un nostro modo approssimato di interpretare il mondo dei fenomeni.
Nel senso che questa è solo logica. E allora anche smettiamola di fare della logica un’ipostasi -come se non potessero esistere altre logiche-, e vediamo piuttosto se riusciamo a inventarci un altro linguaggio che non permetta queste trappole. Allora, se noi avessimo un linguaggio diverso, avvolgente, totalizzante, capace di esplodere sul reale, e non invece un linguaggio fatto di schemi semplificatori, queste contraddizioni non esisterebbero, perché, ribadisco: la realtà non tollera contraddizioni! Insomma, non bisogna prendere questo nostro linguaggio astratto, storicamente determinato, come un assoluto metastorico da cui non si possa sfuggire. Perché, appunto, esiste anche un altro linguaggio, semplicemente da costruire… Un linguaggio in cui i “nomi” siano capaci di aggregare più “cose” contemporaneamente, da vedere in relazione immediata tra di loro, “cose” che si distinguono da altre dal contesto discorsivo, non semplicemente omonimi, ma più che omonimi, costrutti, costrutti concettuali validi nel discorso quotidiano, nella scienza e nella filosofia; spezzare dunque anche la tirannia antieconomica e dispersiva dei sinonimi. Nomi tali che certo sarebbero più vicini alla totalità magmatica in sé che è il fondo del Reale. Un linguaggio appunto “possibile”, un linguaggio che è “impossibile” che non esista!… Da costruire.
Formazione nuova e avanzata vuol dire quindi anche cominciare a occuparsi del nuovo linguaggio come necessità urgente.