contributo di Marco Bruschi
Il titolo del Convegno Nazionale Aif di novembre potrebbe essere “Liberare la formazione”, come viene raccontato nel post dell’organizzatore incaricato, Francesco Varanini. Nel post viene espressa la possibilità/necessità di liberare la formazione dalle consuetudini.
Penso che si possa addirittura andare oltre. La formazione dovrebbe essere liberata anche dalla parola formazione. Se ci si continua a proporre come “formatori” la cosa può continuare a essere percepita come insegnante-studente, come piedistallo-plebe, alto-basso.
Il formatore dev’essere percepito a latere.
Solo in quel modo, credo, si può davvero lasciare un segno e far vedere qualcosa con un punto di vista altro – laterale, appunto – facendo nascere spunti di riflessione diversi.
In piccolo l’ho visto durante la mia prima esperienza di lavoro in un’azienda. Non ho mai usato le espressioni “vengo a farvi formazione”, vengo a “formarvi”. Ho subito avuto l’impressione che venisse percepita come una cosa negativa. Forse anche grazie alla mia giovane età, al mio aspetto non propriamente da “palazzo” – no, non mettevo e non metto la cravatta – al mio modo di pormi, ho sempre ricevuto risposte positive e soprattutto collaborative.
Ma lì andavo spesso effettivamente a fare formazione nel senso più “spiccio”, cioè ainsegnare qualcosa nella pratica – nello specifico, a usare un software, una procedura digitale. In senso più ampio la cosa più importante è mostrare e raccontare. Accompagnare, quasi senza farsi notare, sotto una luce diversa, davanti a uno specchio strano, che possa far vedere se stessi e le cose in modo diverso. Un po’ come l’Ottico di De André.
Penso che la formazione debba sempre meno essere organizzata e sempre più fatta accadere. Come invitare tutti in un’aula sperduta e poi farli perdere durante il percorso, mettendoli davanti a una situazione che non si aspettavano, che forse quasi non c’entra assolutamente nulla, in apparenza. La formazione che non esiste, che non viene percepita come tale, almeno all’inizio. Come un libro che non sai dove vuole andare a parare e non lo capisci nemmeno dopo l’ultima pagina. Ma che poi ti rimane dentro e lo percepisci.