contributo di Antonello Calvaruso, Presidente Nazionale Associazione Italiana Formatori
Da quando abbiamo scelto il titolo del nostro XXVII Convegno Nazionale, “Liberare la formazione”, molti mi hanno chiesto: liberarla da cosa? Il più delle volte ho risposto dalle vecchie metodologie, dagli slogan della moda, dal raggiungimento di obiettivi a breve, e così via.
Oggi, mentre penso quest’articolo, mi trovo alla seduta di laurea di mia nipote. Sono in un antico complesso medievale, in un’Aula Magna composta da una trentina di file di poltrone, stile cinema di prima visione, e un grande tavolo in legno a massello dove siedono dodici professoresse e professori. La prima fila è occupata da ragazze in tailleur e ragazzi in giacca e cravatta. Hanno tutti il volto tirato e tra le mani stringono tesi rilegate in similpelle colore bordeaux o blu.
Si apre la seduta. La prima laureanda inizia la sua relazione dicendo: “Quello che sostengo nella mia tesi …”. Viene subito interrotta da una professoressa che precisa: “La prego! Si tratta di un elaborato e non di una tesi. Lei termina la triennale, non la specialistica”. Un momento di silenzio, poi piove una serie di domande vuote, finalizzate a occupare il tempo destinato al candidato per dargli l’ultima “lezione” prima della proclamazione. I più furbi sono i professori posti ai margini del tavolo che possono liberamente sbirciare il loro cellulare per controllare improbabili messaggi o mail di vitale importanza per il loro futuro.
L’aula è affollata, fa molto caldo e la seduta diventa sempre più noiosa. Allento la cravatta per provare un po’ di sollievo. Mi alzo, guadagno l’uscita e penso: liberare la formazione.
Trovo posto su una panca in pietra lavica, posta fuori l’Aula Magna, che affaccia su un delizioso chiostro ben tenuto. C’è un momento di silenzio innaturale, quasi una sospensione del necessario vociare di un luogo in cui si apprende. Tiro fuori dal taschino penna e taccuino e scrivo: Liberare la formazione …. Il tempo necessario per vedere uscire dall’aula il laureando di turno che, terminato il “supplizio”, si precipita fuori con un codazzo di amiche e di amici che, in maniera chiassosa e felice, si appropria della panca relegandomi in un angolo.
Il laureando è un ragazzo alto e magro, con una pettinatura caratterizzata da un ciuffo anni ’60 che gli ricade sulla fronte, una cravattina stretta e un completo blu dal taglio sportivo. I suoi fan sono una decina di amiche e amici di variegata estrazione. C’è in lui una gran voglia di rappresentare a qualcuno il contenuto dell’elaborato. Di fare quello che non gli è stato concesso nei cinque minuti a sua disposizione durante l’esposizione ufficiale. Pian piano si realizza il miracolo dell’apprendimento. Una sua amica sociologa e un suo amico, laureando in medicina, si appropriano del volumetto blu e iniziano a sfogliarlo.
“Bene” – dice il futuro medico – “Lei, nel suo lavoro, sostiene l’importanza dell’anti Edipo, del desiderio generato dalla mancanza. Ci rappresenti meglio questa Sua tesi”.
Il laureando inizia un’interessantissima dissertazione sulla soddisfazione del desiderio per la qualità nei rapporti sociali. Interviene una ragazza che siede sulla mia giacca. È una laureanda in economia che avvia un ragionamento molto intrigante sul desiderio di benessere sul lavoro.
Si genera un ambiente dove domande, interventi, battute, approfondimenti, risate generano un’esplosione gioiosa di apprendimento. Non è vero che i giovani non sono interessati e non hanno voglia di nulla. È l’Aula Magna che è poco interessante. È lì che si discutono tesi, anzi elaborati, dove professori distratti sollecitano discussioni noiose e distanti da quella esplosione di vita, forte, colorata e chiassosa a cui sto assistendo.
Ecco: Liberiamo la formazione! Pensiamo a nuovi contesti di apprendimento in cui ci sia spazio per la gioia della creazione, della generazione di nuove idee. Luoghi in cui si offra l’opportunità di ampliare lo sguardo, spingerlo sull’orizzonte dove infinite rotte possano rappresentare possibili mete di un presente sereno aperto al futuro.
Liberare la formazione facendola uscire dalle aule tristi dove si realizzano percorsi caratterizzati da esami in serie, spazi occupati da chi scambia la missione dell’insegnamento con la rappresentazione del proprio status.
Professori spesso senza mordente, senza visione, senza trasporto verso questa incredibile forza motrice rappresentata da questi ciuffi, questi sguardi sorridenti. Occhi grandi, pieni di vita. Quella vita che è il passo avanti rispetto ai modelli pedagogici che proponiamo, che imponiamo ai nostri ragazzi quasi come fossa una punizione. Un necessario periodo di ospedalizzazione. Una tappa obbligatoria per espiare chissà quali peccati prima di accedere all’adultità. Inutile rappresentazione del sacrificio cui l’essere umano deve sottoporsi se vuole continuare ad apprendere durante tutto l’arco della vita.
Liberare la formazione: portare dentro la rappresentazione della vita che è fuori e cacciare via l’inutile sacrificio. Apprendere per il futuro con stile chiassoso, gioioso, colorato. Fatto di fughe in avanti, di tentativi e fallimenti, di accelerazioni e pause, di sorsi d’acqua e bicchierini di caffè. Di ragazze e ragazzi seduti l’uno addosso all’altro perché essere seduti tutti è meglio che lasciare qualcuno in piedi. Isolato. Escluso.
Liberare la formazione dalle valutazioni, dai voti, dagli esami che rappresentano sempre l’uscio per accedere a uno spazio dove troppo spesso non si ritrovano dimensioni di senso. Meccanismi ai quali stentiamo ad attribuire senso, ma lo diciamo a bassa voce, nei nostri dialoghi interni, digerendo, sempre più a fatica, il vuoto delle nostre riforme, delle immancabili discussioni noiose sulla formazione al lavoro, sull’alternanza scuola lavoro, sulla realizzazione delle competenze, sulla necessaria competitività aziendale, sulla digital trasformation, sull’organizzazione che apprende.
Respiro quest’aria che sollecita il ricordo dei giorni grigi e colorati degli anni ’70, quando è toccato alla mia generazione la costruzione del futuro.
Andrea Pazienza, in un bellissimo disegno, rappresentò una ragazza un po’ svampita, con i capelli arruffati, il vestito lungo e lo sguardo alto perso sull’orizzonte che si appresta a lasciare un sentiero per continuare a camminare su una nuvola. Sotto ci scrisse: “Alle ragazze che nel ’77 avevano vent’anni e che oggi ne hanno 18”. È la mia generazione! Quella che, se non si fosse distratta per un po’ di anni, non avrebbe generato oggi questa enorme esigenza di liberare la formazione.